LA PORTA DELL’ANIMA

“Il castello bianco” di Orhan Pamuk (Mondolibri)

Entrare nell’anima di uno scrittore dall’ingresso di servizio è un’esperienza che vale la pena tentare, senza bussare al più comodo ed ampio portone del palazzo, aperto il quale si rivela ogni volta il capolavoro. Alcuni brevi e giovanili racconti di Pessoa, altri racconti brevi di Corrado Alvaro, “Cronaca di Pietroburgo”, piuttosto che “Delitto e castigo”, “La sonata a Kreutzer”, piuttosto che “Anna Karenina” o “Guerra e pace”, possono essere la porta, non sempre stretta, dalla quale si accede nell’officina dell’autore, che può essere colto mentre affina gli strumenti espressivi o ricerca il suo personale stile narrativo.
Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006 (permettetemi di aggiungere: meritatissimo!) può essere avvicinato attraverso le pagine di “Il mio nome è Rosso”, il suo romanzo più celebrato, ma anche, come è accaduto a me, passando da quelle non meno pregevoli di “Il castello bianco”, l’opera che lo ha rivelato al mondo della letteratura internazionale. Raccontare in poche battute la trama di un libro, narrato in prima persona, ricco di vicende ma anche di riflessioni, ambientato in una Istanbul durante l’epoca d’oro dell’Impero Ottomano, non è cosa semplice e lascio al lettore il piacere di scoprire le tormentate vicissitudini dei due protagonisti, schiavo e padrone all’inizio e poi, alla fine, entrambi uomini liberi di scegliersi un proprio destino, non così scontato come potrebbe apparire dalle prime battute del romanzo.
Scienza e magia, festini e battaglie, si confrontano e si contrappongono nel corso dell’intera narrazione, in cui i due uomini, talmente simili da arrivare a somigliarsi in tutto, si scambiano spesso i ruoli. La cultura – e, oserei dire: la civiltà – occidentale si confronta continuamente con quella orientale, senza che nessuna delle due risulti realmente prevalere.
La misteriosa metafora del “castello bianco”, dal quale prende il titolo il volume, affascina e ossessiona al tempo stesso, lasciando nel lettore e nei protagonisti il dubbio che, al di là della soglia delle esperienze e delle conoscenze di ciascuno, ci sia qualcos’altro, inesplorabile e invisibile, che rimane precluso nel corso dell’intera esistenza, nonostante gli sforzi fatti per rivelarne il mistero. 
Luogo nel quale non riusciremo mai a penetrare, per quanti sforzi di possano indirizzare all’impresa, il Castello Bianco è poco più che una visione, intravista in lontananza, luogo nel quale il desiderio di entrare si è spento contro le alte mura erette a difesa della propria intimità, dell’inconfessabile e inconfessato, dell’incomprensibile ed incompreso.
C’è poi un altro “castello bianco”, quel doppio del quale ciascuno di noi favoleggia, un altro noi stessi, che esiste da qualche parte del vasto mondo, non un semplice sosia ma un’esatta replica di ciascuno di noi, così uguale ma anche così diverso che, per quanto se ne possa forzare e torturare l’anima, non si riuscirà mai a strapparne i più intimi segreti. Il dubbio che ciò che crediamo di aver capito dell’altro non sia, in fondo, che apparenza e menzogna, perseguita il lettore e i protagonisti per tutto il romanzo. L’unica conclusione certa è che, nella vita come nel racconto, ciascuno mente all’altro,  mentendo al contempo a se stesso, attraverso una costante trasmutazione della realtà in finzione e della finzione in realtà.
Lo stile, assolutamente sconosciuto a chi, lettore “sedentario”, si accontenta di esplorare le vaste e comode pianure della letteratura di cassetta, senza mai tentare la via che conduce alle vette più impervie, è caratterizzato da frasi ricche ed articolate, espressione di pensieri complessi, di tormenti dell’anima, di quella tecnica narrativa raffinata che è riconducibile al jocyano “stream of consciousness” e, forse, non potrebbe essere altrimenti in un romanzo in cui il narrante e il narrato si intrecciano e si sovrappongo costantemente.
L’invito che rivolgo al mio lettore è di alzarsi dalla poltrona – metaforica, s’intende – nella quale consuma le sue passioni solitarie, assolutamente dignitose e rispettabili, e iniziare a scalare l’erta che conduce ai picchi più deserti ed inesplorati della Letteratura, quei luoghi di cui tutti favoleggiano ma che pochi hanno osato visitare. Simili esplorazioni richiedono allenamento e costano fatica, ma, una volta arrivati in cima, il panorama che si scopre è indescrivibile. Coraggio, lettore! Ecco la prima delle infinite vette da scalare che ti attende.

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