A UN VECCHIO AMICO – UN RICORDO

Ah, i ricordi, che balsamo – e che dolore – dell’anima! E come tornano, inquieti e inquietanti, a farti ripensare a chi e cosa sei stato, e a chi e cosa sono stati gli amici di un tempo! “Le cose cambiano”, lo sento ripetere in ogni istante, ed è giusto così, ma non riesco ad accettare che si dimentichino i propositi della gioventù… Che volete, sono fatto così!

Ho scritto questi versi qualche tempo fa, pensando a noi del periodo universitario. Ho scelto di non voler dimenticare…

Ti piaceva da giovane passare
Lente giornate a sciorinare versi
Che poi stendevi al sole ad asciugare

Scarabocchiati sopra fogli persi
Salvati prima di finire al macero.
Certo eravamo giovani e diversi

Giravi sempre spettinato e lacero
Con la camicia sopra i pantaloni
Mi leggevi i tuoi scritti e io tacevo.

Nei discorsi da giovani leoni
Le poche mie parole raramente
Davano forma ad intime emozioni

Ma noi resistevamo fieramente:
Un ingegnere non si abbassa mai
A dire che gli passa per la mente

Un pensiero che, poi, non si sa mai
Un pensiero di nobile valore
Che non valga qualcosa più di assai

Non è neppure degno di parole
Non è nemmeno degno di viaggiare
Senza fermarsi, dalla mente al cuore.

Chiedevamo soltanto di sognare
Essere nuovi, cercare noi stessi
Con un futuro tutto da inventare

Non ci siamo trovati, lo confessi
Col tuo incessante muovere le mani
Come se alle parole non credessi.

Amavamo le sere e i melograni
La bellezza di istanti attraversati
Stringevamo il destino tra le mani.

I sorrisi sugli autobus strappati
Alle ragazze tristi e un po’ scontrose
Perdute in sogni di amori passati

Avevano il profumo delle rose
Che lasciavamo sul gambo a sfiorire,
Quell’odore dolciastro di mimose

Memoria di quel nostro intenso aprile.
È retorico dire: credevamo?
Ma il tempo era già in noi, freddo, sottile

Dei nostri dubbi più non ridevamo
E c’era già in quel nostro farsi seri
Un dolore che ancora ignoravamo

Che ci impietriva l’anima e ai pensieri
Tagliava le ali ed al nostro volare
Toglieva forza, e vita ai desideri.

C’erano ancora sogni da sognare
C’era il presente con quel suo richiamo
A navigare ancora un altro mare

Chi noi si fosse non lo sapevamo
Né l’abbiamo saputo fino ad ora
Né lo sapremo mai. Non ci cerchiamo

Se non la sera, quando ormai scolora
Il ricordo di un giorno uguale a ieri
E che domani rivivremo ancora

Non li capivo più quei tuoi pensieri
Che leggevo scolpiti sopra un viso
Così diverso da quello di ieri

Mi congedasti con quel tuo sorriso
Disilluso dell’oggi e del domani
E quella noia impressa sul tuo viso

Non mi dicesti: fermati, rimani
Come quel giorno che ti ho conosciuto
E mentre mi tendevi la tua mano

Sono serio, mi hai detto, son cresciuto
Ed io ti ho visto l’anima di dentro
Incatenata nel carcere muto

Del tuo corpo maturo di scontento.
Sul tuo volto pulito e ben rasato
Non c’era più la barba di quel tempo

Ma quel sorriso dolce ed impacciato
Di te mi disse più del tuo non detto
Di te mi disse più del tuo passato

Oggi siamo cambiati, sì lo ammetto
Ma che di un sogno si smarrisca il senso
Non so capirlo, proprio non lo accetto

Per rinunciarvi no, non c’è compenso
Sono le tue certezze che mi mancano.
Non ci siamo più visti, ma ti penso

In certe sere quando l’aria stanca
Si posa sui ricordi come cenere
Che scende lieve e ogni pensiero imbianca.

Forse ho perduto, ma non voglio cedere.

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IL SILENZIO DEI PAZIENTI

Deve essere molto difficile per un medico restare in silenzio, mentre esegue un esame su un paziente e, successivamente, mentre compila la diagnosi. Deve essere davvero difficile resistere alla tentazione di lasciarsi sfuggire una frase, una parola, una sillaba, mentre il paziente è in impaziente attesa del responso. Immagino quale durissimo tirocinio avrà dovuto sostenere, lui che al bar con gli amici, in famiglia, negli incontro con i colleghi sarà senz’altro un gradevole e apprezzato conversatore. Immagino quali e quanti esami avrà dovuto inserire nel suo curricolo professionale e specialistico per apprendere le più moderne tecniche dell’afasia. Anni e anni di dura esperienza per raggiungere uno stato della mente molto prossimo alla trance.

Ma forse c’è un’altra spiegazione possibile: il medico teme di lasciarsi sfuggire qualche segreto professionale che, una volta entrato in possesso del paziente, rischierebbe di esautorarlo dalle sue funzioni. D’altra parte, anche gli sciamani e gli stregoni, dai quali i moderni medici, volenti o nolenti, discendono, trasmettevano il loro sapere esclusivamente a coloro che erano destinati a prendere il loro posto in un qualche futuro.

Vorrei tranquillizzare i medici: anche se dovessi carpire il più piccolo dei loro segreti, prometto di non divulgarlo. Lo terrò per me e ne farò il migliore uso possibile, vale a dire nessuno. Quanto ho detto finora è solo per mantenere le mie considerazioni su un piano scherzoso e benevolo. Ma c’è qualcos’altro che temo, il medico non vuole perdere tempo a parlare con uno che, tanto, non capirebbe niente di quello che dice. Capisco, in questo momento, le ragioni dei tanti che preferiscono il fai-da-te piuttosto che consultare un medico, in ogni caso, alla fine, ne saprebbero quanto prima. Ammetto di pensare male, ma in questi casi, oltre a commettere un peccato, si indovina sempre.

Vorrei, se possibile, ancora una volta tranquillizzare il medico: capisco l’italiano. Conosco di questa lingua quel tanto di rudimenti che bastano a comprendere termini di uso comune come posologia, diagnosi, terapia e prognosi. Il monologo, qualcosa che deve temere più di qualunque altro al mondo, è pertanto scongiurato; potremo conversare amabilmente del mio stato di salute e, soprattutto, ottemperare all’obbligo da parte sua di informare il paziente. Se e quando riuscirà a rompere la ferrea regola del silenzio che si è imposto, potrà rendersi conto perfino del potere terapeutico della parola e di quello quasi taumaturgico di un sorriso e di una stretta di mano.

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TERAPIA DEL DOLORE

NEVICA A LUSSEMBURGO – di Katia MERLI – Quaderni Edizioni

La poesia è il terreno preferito nel quale amano addentrarsi i lettori curiosi, il campo aperto ed esposto a tutti i venti in cui le loro quasi sempre fragili certezze si confrontano e a volte si scontrano con quelle degli autori. La poesia li attrae come i fiori attraggono le api, mentre respinge i lettori pigri, quelli che vorrebbero tutto scontato e tutto facile, e che hanno come unico desiderio quello di percorrere le pagine del libro in una specie di viaggio organizzato a partire dall’incipit. Vorrebbero, ad esempio, che titolo e contenuto non entrassero in conflitto fra loro, a volte anche contraddicendosi, e che quello che si mostra fin dalla copertina corrispondesse esattamente a quello che troveranno dentro nelle pagine. Da buoni lettori pigri, non amano le sorprese, né tanto meno il doversi applicare a comprendere il senso del testo che hanno davanti. La poesia, lo dico subito per evitare equivoci, è ben altra cosa. Niente di precotto o di facilmente digeribile, a volte è perfino dura da masticare, va ruminata, come fanno gli erbivori, ma, una volta assimilata, diventa parte integrante di noi stessi e perfino necessaria alla sopravvivenza quotidiana. “Nevica a Lussemburgo”, l’intensa raccolta poetica di Katia Merli, intriga il lettore fin dal titolo. Intendo, naturalmente, il lettore abituato a interrogarsi, quello che si lascia facilmente attrarre da qualcosa a cui non sa dare di primo impulso una risposta. Seducente fin dall’inizio, nel pieno significato che assume il termine, se-ducere, condurre, o meglio trascinare, verso sé in maniera imperiosa, dopo avere afferrato l’oggetto o l’individuo. Il senso del titolo lo spiega l’autrice stessa nella sua breve introduzione – prefazione, nella quale dà immediatamente un saggio dell’anomalo utilizzo dei termini presenti nelle liriche, parole, per così dire, dislocate in un altrove da sé, talvolta decisamente distante. Una scrittura che si potrebbe definire “sperimentale” e che ha il potere di suggestionare il lettore, allontanandolo da sentieri conosciuti per inoltrarlo in luoghi altrimenti inesplorati.

Colpisce e sorprende l’uso “irregolare” e audace dell’accostamento di termini insoliti. Mi è tornata in mente la bellissima lezione di poesia che Philippe Noiret, che interpreta Neruda, impartisce al postino Troisi circa l’uso degli aggettivi che servono a illuminare e ad esaltare gli oggetti, anche i più comuni, che la poesia sa trattare. Gli oggetti trasmettono emozioni, quando li si avvicina a termini che di solito non vengono usati per descriverli, si crea in tal modo una dissonanza rispetto a una armonia preesistente e, a volte, fin troppo scontata. Una dissonanza che, inizialmente, si percepisce come disarmonica, ma è proprio lì che il pensiero trasale per avere avvertito una specie di novità, ed è proprio lì che si sofferma e successivamente ritorna. Si sposta, in definitiva, l’attenzione dal senso al sentimento, ed è un po’ questo il compito che viene assunto sempre più di frequente dalla poesia, evocare più che rappresentare e mostrare. La lettura della raccolta poetica di Katia ha evocato anche il ricordo di una visita al museo Mirò a Barcellona. I quadri di Mirò sono stati la prima immagine che mi è apparsa, incoerenti e indecifrabili all’apparenza, specialmente per chi è abituato a immaginare l’arte come semplice rappresentazione del reale, quando invece è l’arte che costruisce – e spesso destruttura e ristruttura – la realtà. Abituati come siamo alla rappresentazione di figure ben note, ci smarriamo di fronte alle trasformazioni operate da parte degli artisti, siano essi pittori o poeti.

In molti casi, chi scrive utilizza le parole come un farmaco, per una vera e propria terapia a beneficio di un’anima dolente e ferita dall’esistenza. La scrittura in questi casi è decisamente migliore di un analgesico, perché agisce direttamente sulle cause, aiutando a prendere le distanze dal proprio vissuto, mentre un analgesico agisce soltanto sugli effetti. La neve evocata dal titolo, che vuole essere la metafora del desiderio di nascondere le brutture del mondo agli occhi di chi ne ha viste fin troppe, compare poi sia nella poesia di apertura che in quella che chiude la raccolta, ma con intenti marcatamente diversi. Ogni lirica contiene in sé pregi che lascio al lettore scoprire, anche a lui tocca fare la propria parte, dopotutto. Quanto a me, ne citerò alcune che mi hanno particolarmente colpito.

Nella poesia “ANIMA”, ho avvertito la sensazione di visitare un luogo sofferto e sofferente, visto come ricettacolo di tutte le brutture del mondo. La neve che cade serve a coprire e a nascondere quanto di terribile e doloroso il mondo presenta. “Nevica sul pensiero… “la voce… /esula parole sconcordi”.

“INVERNO A LUSSEMBURGO” è la visione di un ricordo estremamente nitido, come nitide sono le parole usate per tradurlo in segni, con una chiusa decisamente dolorosa, che richiama un cuore in inverno.

Nella lirica “MUSICA”, la poetessa racconta la sola cosa che continui ancora ad esercitare il suo potere salvifico e consolatorio. Ogni volta che appare tra i versi, il dolore sembra farsi da parte, scacciato e quasi sconfitto dal potere dei suoni, dei ritmi e delle melodie.

“MIRACOLO” è, infine, la poesia che conclude la raccolta, forse quella che sa maggiormente infondere una nota di ottimismo per il miracolo di un amore appena sbocciato. La chiusa “Nevica / ma solo a Lussemburgo” e questa neve è soltanto nel ricordo, accende e lascia intravedere nuove speranze.

Tutto questo – e molto di più, naturalmente – lo potrete trovare nel libro e nei versi di Katia. Una buona lettura!

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DI NUMERI E POESIE

“Problemi con le rime” di Luca BIANCARDI – Bertoni Editore

Non si considera un’operazione semplice, né tanto meno banale, riuscire a inventare, al giorno d’oggi, una modalità originale di comunicazione, specialmente in ambito poetico, senza evitare di scivolare, o a volte persino affondare, nel barocco o nell’artificioso. D’altra parte, chi decide di dedicarsi alla scrittura, con l’obiettivo implicito di sottoporsi all’attenzione e, di conseguenza, al giudizio critico di un pubblico, amerebbe trovare un modo per emergere tra la moltitudine indifferenziata dei tanti che quotidianamente prendono in mano una penna o cominciano la loro avventura, schiacciando i tasti di un computer. Perché di scrittori o aspiranti tali se ne incontra una quantità assai numerosa, la più variegata, la più complessa e la più strana possibile.

Luca Biancardi risolve il problema – mi si passi il bisticcio di parole – consegnando ai lettori i suoi “Problemi con le rime”, un testo che rappresenta, a partire dal titolo, un vero e proprio invito alla riflessione e all’introspezione, oltre che una sfida alla soluzione degli enigmi. Limitandosi a un rapido sguardo alla copertina, così gremita di numeri, e a una semplice occhiata al titolo, il lettore, memore dei propri trascorsi scolastici, tra i quali quello di avere avuto con la matematica un rapporto decisamente conflittuale, potrebbe concludere frettolosamente che, infine, quel libro non rientra fra i suoi interessi. Conclusione decisamente affrettata e anche erronea. E qui sarebbe appena il caso di sottolineare che quel conflitto, in realtà, non lo ha avuto con la matematica, di per sé metafisica e concettuale, quanto piuttosto con chi si era assunto il compito di insegnargliela, e che, alla fine, subissandolo di regole astruse ed esercizi ai limiti del sadismo, ha finito invece per fargliela odiare. Così, il timore che aprendo quella copertina si potrebbe trovare di fronte ad uno di quegli esercizi di “sadismo computatorio” che gli sono stati propinati a scuola, gli impedirà di andare oltre l’avere preso in mano il libro; anzi, il potenziale acquirente si precipiterà a riporlo sullo scaffale, dal quale l’aveva appena tolto per dargli un’occhiata, con la stessa rapidità con cui lascerebbe cadere di mano un ferro rovente.

Si tranquillizzi, tuttavia, l’aspirante lettore, e se davvero vuole sincerarsi sulla verità di quanto andrò a dire, apra quella benedetta copertina e cominci a sfogliare le pagine, perché l’intenzione dell’autore non è quella di infierire in corpore vivo, semmai di divertire e stimolare la curiosità di chi legge quelle parole e quei versi. Tanto per continuare a tranquillizzare l’ormai quasi rassicurato lettore, il percorso che Biancardi farà intraprendere a chi avrà la pazienza di seguirlo non somiglia affatto a quel procedimento che hanno tentato di farci imparare a scuola (dal problema alla soluzione per arrivare al risultato), semmai al suo contrario (dal risultato alla soluzione per tornare al problema), un procedimento quest’ultimo che ha il potere di sollecitare e solleticare la fantasia e l’intuito di chi legge. A fronte di ogni testo poetico, si troveranno collocati uno o più numeri, il cui significato è strettamente legato al testo e da esso derivante, ed è questo l’enigma da sciogliere.

Detto, quindi, delle particolarità e dell’originalità del volume, entriamo nel merito del cosiddetto “valore” poetico, perché infine si tratta di componimenti di poesia in senso stretto. Durante la lettura, si mostreranno ai nostri occhi versi brevi e frammentati, quasi rapidi colpi di pennello, per accennare e suscitare il disegno che si rivela dentro e oltre la sequenza delle parole. Perché ogni testo, specialmente quello poetico, ha il potere di fare apparire immagini, a volte già a partire dal titolo. Molte le poesie dedicate agli oggetti di uso comune, che appaiono come umanizzati, altre che fanno riferimento a stati d’animo con titoli che anticipano il contenuto e quasi mai se ne discostano. A ritmo serrato, quasi a schiocchi di frusta, Biancardi, come un abile domatore di parole, le costringe ad allinearsi e ad assumere ciascuna un senso che si compie e si completa in perfetto accordo con le compagne.

Tra le tante liriche, ho voluto procedere alla scelta di alcune, quelle che mi hanno colpito particolarmente, fermo restando che ogni scelta è dolorosa perché, includendo qualcosa, costringe ad escludere qualcos’altro. Ho trovato di particolare interesse il componimento “Lancette di orologio”, che affronta il tema del tempo sempre inseguito e mai raggiunto, tanto che non lo si vedrà mai in faccia; di lui non possediamo una vera immagine che lo connoti, ma soltanto un’idea vaga e generica. Altro componimento pregevole, “Possibilità con paradosso”, in cui, nel confronto serrato, direi quasi scontro, fra numeri e parole, viene immaginata la sconfitta di queste ultime, così che la parola “amore” cede il posto al numero “infinito”. Né è da trascurare la lirica “Caffè”, in cui un mezzo usato per umanizzare il rapporto con la quotidianità, diventa metafora della possibilità di cancellare col il forte sapore (ma anche con il nero colore) “macchie di delusioni / ombre di depressioni”, in un gioco tra il visivo e il gustativo. E poi, “Un foglio di carta”, presentato come un avversario temibile per chi scrive, in impassibile attesa che qualcosa venga a turbare il suo candore; un foglio di carta strappato, lasciato andare al vento, che, inconsapevole, trasporta parole, anzi, la parola per eccellenza: amore. Quindi, la lirica “Parole”, onnipresenti ovunque nel cosmo e intorno a noi, che invitano ad essere colte, afferrate e trasportate sulla carta, oppure fotografate, come se ci si limitasse a riprodurle così come sono. Parole che occorre poi organizzare per dare loro un senso ed è questo il compito precipuo di chi scrive.

Di particolare contenuto emozionale anche la lirica “Vivi e morti” che ricorda la terra popolata da sette miliardi di vivi, accanto ai quali sono presenti anche i morti, in una commistione tra il visibile e l’invisibile – “la voce del vivo / si mischia / al discorso del morto – e ciascuno, ben oltre quei sette miliardi, lascia anche una minima traccia del suo passaggio.

Infine, ma non perché si esaurisca l’interesse nella lettura di questi coinvolgenti componimenti, “Estate”, un ricordo d’altri tempi, un ricordo felice dell’autore “giovane ragazzo”, che mostra e fa comprendere l’impossibilità di tornare indietro ma che, al tempo stesso, è utile e necessario a vivere e ad andare avanti. L’invito alla lettura e alla rilettura, quest’ultima con la maggiore attenzione possibile, è scontato, ma anche necessario e doveroso, indotto dalla necessità, e si auspica anche dal desiderio, di risolvere l’arcano dei numeri presenti sulla pagina a fianco e del loro collegamento logico con le parole del testo poetico. Una serena lettura!

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PER NON FARE RUMORE…

“In punta di piedi” di Lucia ALBA – Bertoni Editore

Non è mia abitudine recensire libri di poesie, e se lo faccio, lo faccio a malincuore e con estrema cautela, perché sono certo che qualsiasi cosa scriva in proposito sarà l’esito di un fraintendimento, di una fin troppo libera interpretazione delle intenzioni comunicative dell’autore. Così, proprio come suggerisce il titolo, entrerò in punta di piedi tra queste pagine, con la poco fondata e incerta speranza di poter fare altrettanto con l’anima dell’autrice. Chiedo scusa fin d’ora a Lucia Alba se non sarò riuscito nel mio intento e, più probabilmente, mi limiterò a tradurre in parole, passabilmente sensate, quello che la mia anima ha percepito – anche “compreso” mi sembra un termine eccessivo, quando si parla di poesia, escludendo poi del tutto l’aver “capito”, operazione decisamente impossibile quanto inutile e persino nociva al testo poetico.

La poesia è di per se stessa libera e serena espressione dell’anima e, come tale, verità, specialmente se posta a confronto con un’opera di narrativa che è sempre e comunque finzione, consapevole artificio per trattenere il lettore sulla pagina del romanzo o del racconto.

C’è nei versi di queste poesie un’atmosfera sospesa, la sensazione che si stia attendendo che qualcosa accada, e, al tempo stesso, un abbandonarsi all’attimo che si sta vivendo, lasciandosi cullare da quello che arriverà, senza preoccuparsene eccessivamente. La vita viene colta attimo per attimo, per poterne gustare tutta la bellezza che porta con sé e potersi immergere profondamente nelle sensazioni e nelle percezioni che avvincono l’anima.

Ammetto che ogni lirica meriterebbe una sua specifica analisi, tale è la densità dei sentimenti e delle emozioni che ciascuna sa esprimere e fa emergere alla luce del sole e all’attenzione del lettore. Così ne citerò alcune in particolare, quelle che mi hanno colpito maggiormente, senza per questo voler diminuire la bellezza e l’eleganza compositiva e stilistica delle altre.

In una lirica su tutte mi ritrovo pienamente, “Sogni giovanili”, sogni eterni, universali, che appartengono ai giovani di qualunque luogo, qualunque epoca e qualunque società. Si rivolge alle “giovani matricole entusiaste”, quello che molti di noi sono stati in tempi diversi, quei tempi che hanno forgiato le nostre coscienze e ci hanno poi spinto a decidere cosa fare – e non fare – della nostra vita. Ed ecco, così, rievocati “filosofi, poeti, cantautori/ che il cuore infiammavamo di ardore”, i grandi sogni di noi che volevamo cambiare il mondo, quel mondo che “si voleva ridipingerlo ad oltranza”.

E, poi, “Mutismo”, che descrive una situazione così comune in chi si applica alla scrittura, il venire meno dell’ispirazione, il non avvertire più dentro di sé il suono di quelle parole che un tempo sgorgavano così impetuosamente. Lucia riesce perfettamente a trasmettere il disagio, quasi il dolore, che si prova davanti alla pagina bianca, che rifiuta di farsi riempire dei segni che comunicano al lettore i nostri più nascosti sentimenti.

La condizione umana, che travalica ampiamente quella personale, è affrontata con spirito di consapevolezza e di comprensione, facendo intendere pienamente quanto l’anima dell’autrice sia vicina alla gente, in sintonia con le speranze e i desideri che animano il mondo.

Ci sono poi le stagioni e luoghi in cui si dipana l’esistenza dell’autrice, rievocati con struggimento e nostalgia, come se quei tempi e quei luoghi avessero segnato profondamente l’anima di Lucia, e fossero poi riaffiorati in versi e descrizioni da condividere con il lettore. Una poesia di sentimenti più che di parole, senza retorica e senza infingimenti, come deve essere d’altronde la vera poesia, un sincero offrirsi alla conoscenza, all’apprezzamento e al giudizio critico del lettore, perché le emozioni, nelle parole di Lucia, “con inequivocabile franchezza / parlano di sé al mondo”.

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UOMINI E API

“Come il miele sugli spiedini” di Elisa VAGNARELLI (Bertoni Editore)

“Che fine fanno i sogni dei bambini?”. È la domanda che mi sono posto spesso, durante la lettura del romanzo di Elisa Vagnarelli, e alla quale ho provato a trovare una risposta tra le pagine del libro. L’amara considerazione che le tempeste dell’esistenza quotidiana li frammentano in mille pezzi mi ha accompagnato per gran parte della storia. Intanto che scorrevano le pagine, mi veniva fatto di paragonare l’esistenza dei protagonisti a quella di tante persone che ho conosciuto e che conosco. Giovani coppie in crisi per aver dato troppo peso all’apparire piuttosto che all’essere; anziani che stentano a trovare un proprio ruolo e una propria collocazione, in una società che ha fatto del giovanilismo la propria bandiera e del sembrare la propria maschera; bambini per i quali poter vedere i genitori anche per mezza giornata è diventato ormai un miraggio, sommersi di regali costosi quanto inutili e divisi dalle rivalità tra i loro genitori.

Ho ritrovato in queste pagine la stessa “scrittura fresca” dell’esordio di Elisa, “Galeotto fu l’SMS”, che avevo brevemente recensito in occasione della sua uscita, ormai sedici anni fa. Stavolta, il tempo ha provveduto a scombinare un po’ le carte, così, anziché seduto tra il pubblico presente all’evento, mi sono trovato – e aggiungo: con estremo piacere – a rivestire il compito di partecipante al tavolo dei presentatori, in un pomeriggio di fine febbraio quasi primaverile. È stata anche un’occasione per parlare della bellezza della scrittura, un modo di salvarsi la vita che non richiede l’uso di farmaci, anzi, è essa stessa un farmaco, senza altri effetti collaterali se non il continuo impulso a scrivere in ogni istante di tempo libero.

Ma, tornando al romanzo di Elisa, la narrazione nella prima parte è ambientata in interni, dei quali i personaggi sembrano prigionieri, come se le loro esistenze fossero bloccate e il fluire delle loro vite interrotto. Si percepisce amarezza, più che dolore, al massimo un dolore attutito dalla routine quotidiana. Anche la scrittura sembra piegarsi alla narrazione, utilizzando in prevalenza modi verbali congiuntivi e condizionali, ad esprimere dubbi e rimpianti nella prima parte, poi tempi e modi più solidi, più adatti ad esprimere certezze e possibilità in un finale decisamente positivo.

“Come il miele sugli spiedini” è una parabola della società attuale, fatta di un continuo inseguire la felicità e il benessere, quando spesso lo abbiamo proprio davanti agli occhi. È questo il messaggio che Elisa vuole diffondere in una società sempre più stanca e delusa, indicandoci il cammino da seguire per riportarci sul sentiero della felicità per le piccole cose.

Si avverte una sorta di scollamento, quasi un deciso voler voltare pagina, fra la prima parte, più tormentata e problematica, e la seconda, più serena e consolatrice, come se per l’autrice fosse più facile calarsi in una situazione da commedia piuttosto che da tragedia, raccontare la bellezza della vita piuttosto che il male dell’esistenza, quel dolore che avvolge l’anima di chi cerca se stesso e non si trova. Chi cerca, insegue una stabilità, un senso, che nella vita rappresenta in genere un’utopia, un desiderio perennemente insoddisfatto: Tonio un senso alla sua vecchiaia, Luca un senso al suo lavoro e Pietro un senso al suo essere bambino. In tutta la storia, le donne sembrano apparentemente confinate a ruoli secondari, mentre i protagonisti sono maschi, con i loro grandi e piccoli problemi di ogni giorno e di ogni esistenza. Ma, quando tutto sembra ormai congelato in un eterno presente, giungono in soccorso agli umani due protagoniste femminili: il deus – anzi, la dea – ex machina, la regina delle api e la maestra Simona. Ma il perché del titolo e il come tutto questo avvenga dovrete scoprirli da soli nell’unico modo sensato: leggendo il romanzo

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IO, POETA?

E’ uno dei tanti dubbi con cui mi sveglio la mattina e mi addormento la sera…

IO, POETA?

Amo scrivere versi, sì, lo ammetto
Continuano a girarmi intorno
Finché non li distendo sopra un foglio
Mi danno il benvenuto ogni mattina
La buonanotte quando chiudo gli occhi
Amo scrivere versi, ma non accetto
Che mi si chiami poeta, non ho certo
L’aria compunta e trasognata, spesso triste
Di chi ha fatto dei versi l’esistenza
Li scrivo per lavoro o per piacere?
Questo vuole sapere il doganiere
Che attende alla frontiera del mio spirito
Forse dovrei riflettere più a lungo
Prima di dare la risposta
Ma alla dogana dell’anima hanno fretta
Non hai nemmeno il tempo di pensare
Ogni minuto, ogni parola costa
In rimpianti, in tormenti senza senso
Così rispondo: scrivo, perché amo
Dire al mondo e alla vita ciò che penso

© Sergio Tardetti 2019

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da Umbria e Cultura

Poesia. Presentato a Gubbio “Ritratti di sconosciuti” di Sergio Tardetti

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da CRONACA EUGUBINA

Presentato il libro di poesie “Ritratti di sconosciuti” di Sergio Tardetti. “La poesia riesce a dare la speranza che qualcosa possa cambiare”

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Presentazione libro





     

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