CAVEAT EMPTOR!

 “La cattedrale del mare” di Ildefonso Falcones (Longanesi)

Ogni volta che ho per le mani un libro, che reca in copertina una fascetta con diciture tipo “Un milione di copie vendute”, oppure “Un fenomeno mondiale”, vengo assalito da una improvvisa insicurezza e da un dubbio. “Sarò degno dell’impresa?”, è la mia prima domanda, e non tanto perché non è sempre facile arrivare in fondo a libri simili, tipico esempio di quella che definisco “letteratura bulimica”, quanto piuttosto perché schierarmi apertamente contro le opinioni di quel milione di persone che hanno acquistato il libro potrebbe procurarmi più di un fastidio. Mi consola pensare che il fatto che abbiano acquistato il libro non significa necessariamente che lo abbiano letto.
Provo così, attraverso le mie osservazioni – personalissime, come sono solito ripetere – a far desistere dall’impresa di arrivare in fondo a questo ponderoso tomo chi, magari in occasione delle vacanze estive, ha già iniziato a togliere la polvere a qualche libro, abbandonato dalle ferie dello scorso anno sul comodino, da portarsi dietro per quelle notti in cui il gran caldo rischia di non fargli prendere sonno. Stia tranquillo il lettore: posso garantire che certi libri funzionano meglio di qualsiasi sonnifero e che questo, in particolare, renderà piuttosto agevole il suo ingresso nel regno di Morfeo.
Credo, finora, di aver detto o scritto una o due volte al massimo che un libro, che avevo appena terminato di leggere, non mi era piaciuto, e non certo perché trangugio, metaforicamente, qualunque testo mi venga propinato.
Non mi definisco un lettore di gusti facili, tutt’altro; quando si tratta di spendere parte del mio tempo sopra un testo, di solito opero una scelta particolarmente accurata, e se mi dedico a qualche assaggio, a qualche escursione nel poco o per niente noto, lo faccio con molta cautela. Tra i criteri che ho adottato per selezionare qualche nuovo autore dal vastissimo menu che gli editori grandi e piccoli presentano quotidianamente sul mercato, non c’è sicuramente quello di scegliere qualche nuovo libro da leggere dalla classifica dei più venduti. Preferisco, piuttosto, affidarmi al passaparola di amici e di conoscenti, che so per esperienza essere attenti o curiosi lettori, un po’ come me, del resto. Insomma, leggo un nuovo libro, anche di qualche sconosciutissimo autore, perché qualcuno, di cui mi fido, me ne ha consigliato la lettura, o, al limite, perché la critica, quella fornita di tutta l’autorevolezza necessaria, ne ha parlato molto bene.
Venendo al testo in questione e alle vicende in esso narrate, si racconta, in estrema sintesi, la storia di un’esistenza difficile e tormentata di un uomo che, nato schiavo, acquista la sua libertà e raggiunge, alla fine una solida posizione economica. Tutto questo avviene nella città di Barcellona, nello scenario di una Spagna medievale, in cui sono protagonisti anche i grandi eventi della Storia: guerre, carestie, pestilenze, l’eterna caccia agli ebrei, il conflitto con gli arabi, allora presenti in gran parte della Spagna. Alla grande Storia sullo sfondo, si contrappone, in primo piano, la cronaca quotidiana, quella che il trascorrere del tempo e l’offuscarsi della memoria finiranno per trasformare in storia.
Fatte le dovute proporzioni, l’opera richiama alla mente i nostri “Promessi sposi”, trasportati nel quattordicesimo secolo, ma, probabilmente, la sensazione è dovuta più al contesto storico in cui si cala la cronaca quotidiana dei personaggi che non alla volontà dell’autore di imitare il capolavoro manzoniano. È proprio in quanto allo stile che le due opere si allontanano; alla continua e faticosa riscrittura di Manzoni si contrappone la scrittura istintiva e affrettata di Falcones, che si traduce in uno stile non proprio irreprensibile. Ed è questa indubbiamente la maggiore pecca del libro, frutto, non si sa bene se della trasandataggine dell’autore o della scarsa dimestichezza con la lingua, italiana o spagnola o entrambe, del traduttore. Non credo che lo spagnolo in sé produca frasi che si riescono a rendere con difficoltà in italiano; penso, ad esempio, ad opere di Borges o di Cervantes e non osservo in quei testi la stessa sciattezza nella scrittura o nella traduzione.
Giunto ad oltre quattro quinti del libro, devo a malincuore confessare che questa lettura mi ha stancato, per cui ho deciso di avvalermi di uno dei più sacri diritti del lettore, declinati nel celebre decalogo di Pennac, e precisamente del II: “Il diritto di saltare le pagine“, che, unitamente al III: “Il diritto di non finire il libro”, hanno determinato l’anticipata conclusione della mia fatica. Cave librum!

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